Li Chevalier espone violini, desiderio e altre traiettorie Corriere della Sera (Roma)
Dalla Biennale all’ex Mattatoio la mostra di Li Chevalier
Corriere della Sera (Roma)
28 Jan 2017 a di Giuseppe Pullara
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Metafora I violini che compongono «Polifonia», una sezione della mostra al Macro di Li Chevalier
Eppur si muove. Nonostante sia «commissariato» da troppo tempo, nonostante disponga di un acronimo (Macro) pretenzioso quasi quanto il Maxxi, nonostante sia piazzato nel contesto angosciante dell’ex Mattatoio di Testaccio, nonostante un suo spazio espositivo evochi il tristo luogo (Pelanda) dove si toglieva la pelle ai maiali scannati, il museo comunale di arte contemporanea ogni tanto dà segni di vita. L’area che fino a una quarantina d’anni fa ospitava il Macello delle bestie, circa otto ettari, è tutt’ora in stato derelitto anche se qualche aula di Architettura di Roma Tre e il Macro, oltre ad altre modeste iniziative (la Città dell’Altra economia, ecc.) vorrebbero farci dimenticare il totale fallimento di ogni organica progettualità in un’area preziosa al centro di Roma. Lo spazio dell’ex caserma di via Guido Reni, al Flaminio, è stato «riempito» con la grandiosa opera di Zaha Hadid –peraltro incompiuta- mentre quello insanguinato dell’ex mattanza di animali sembra colpito da un anatema che ha impedito la realizzazione di qualcosa di significativo.
Eppur si muove. Nonostante sia «commissariato» da troppo tempo, nonostante disponga di un acronimo (Macro) pretenzioso quasi quanto il Maxxi, nonostante sia piazzato nel contesto angosciante dell’ex Mattatoio di Testaccio, nonostante un suo spazio espositivo evochi il tristo luogo (Pelanda) dove si toglieva la pelle ai maiali scannati, il museo comunale di arte contemporanea ogni tanto dà segni di vita. L’area che fino a una quarantina d’anni fa ospitava il Macello delle bestie, circa otto ettari, è tutt’ora in stato derelitto anche se qualche aula di Architettura di Roma Tre e il Macro, oltre ad altre modeste iniziative (la Città dell’Altra economia, ecc.) vorrebbero farci dimenticare il totale fallimento di ogni organica progettualità in un’area preziosa al centro di Roma. Lo spazio dell’ex caserma di via Guido Reni, al Flaminio, è stato «riempito» con la grandiosa opera di Zaha Hadid –peraltro incompiuta- mentre quello insanguinato dell’ex mattanza di animali sembra colpito da un anatema che ha impedito la realizzazione di qualcosa di significativo.
Eppur si muove. Nonostante sia «commissariato» da troppo tempo, nonostante disponga di un acronimo (Macro) pretenzioso quasi quanto il Maxxi, nonostante sia piazzato nel contesto angosciante dell’ex Mattatoio di Testaccio, nonostante un suo spazio espositivo evochi il tristo luogo (Pelanda) dove si toglieva la pelle ai maiali scannati, il museo comunale di arte contemporanea ogni tanto dà segni di vita. L’area che fino a una quarantina d’anni fa ospitava il Macello delle bestie, circa otto ettari, è tutt’ora in stato derelitto anche se qualche aula di Architettura di Roma Tre e il Macro, oltre ad altre modeste iniziative (la Città dell’Altra economia, ecc.) vorrebbero farci dimenticare il totale fallimento di ogni organica progettualità in un’area preziosa al centro di Roma. Lo spazio dell’ex caserma di via Guido Reni, al Flaminio, è stato «riempito» con la grandiosa opera di Zaha Hadid –peraltro incompiuta- mentre quello insanguinato dell’ex mattanza di animali sembra colpito da un anatema che ha impedito la realizzazione di qualcosa di significativo.
Eppur si muove. Nonostante sia «commissariato» da troppo tempo, nonostante disponga di un acronimo (Macro) pretenzioso quasi quanto il Maxxi, nonostante sia piazzato nel contesto angosciante dell’ex Mattatoio di Testaccio, nonostante un suo spazio espositivo evochi il tristo luogo (Pelanda) dove si toglieva la pelle ai maiali scannati, il museo comunale di arte contemporanea ogni tanto dà segni di vita. L’area che fino a una quarantina d’anni fa ospitava il Macello delle bestie, circa otto ettari, è tutt’ora in stato derelitto anche se qualche aula di Architettura di Roma Tre e il Macro, oltre ad altre modeste iniziative (la Città dell’Altra economia, ecc.) vorrebbero farci dimenticare il totale fallimento di ogni organica progettualità in un’area preziosa al centro di Roma. Lo spazio dell’ex caserma di via Guido Reni, al Flaminio, è stato «riempito» con la grandiosa opera di Zaha Hadid –peraltro incompiuta- mentre quello insanguinato dell’ex mattanza di animali sembra colpito da un anatema che ha impedito la realizzazione di qualcosa di significativo.
E tuttavia ecco che dal Macro, ogni tanto, vengono lanciati messaggi di sopravvivenza con installazioni e mostre in grado di accendere l’attenzione di chi ama l’arte contemporanea. Come quella che da oggi, fino a fine marzo, ha per protagonista Li Chevalier, cantante dell’Opera cinese trasferitasi in Francia e divenuta scultrice e pittrice. In tre sale dell’innominabile Pelanda Li, 55 anni portati con leggerezza, espone un’installazione di violini pervasi di una musicalità altamente suggestiva a fianco di una trentina di dipinti a inchiostro montati su cavalletti. Il progetto artistico, («Trajectory of Desire»), ha debuttato allo spazio Open della scorsa Biennale di Venezia passando ora nella Capitale. Si tratta di una sorta di «trasloco d’arte» dal capoluogo lagunare alla nostra disastrata città. Un tempo cantante all’Opera di Pechino e poi soprano nel coro dell’Orchestra di Parigi, Li Chevalier ha portato sempre con sé la propria indole musicale nella sua trasformazione in artista contemporanea. Il suo lavoro è stato mostrato alla Summer Edition della Royal Academy of Art di Londra, nei musei nazionali di Pechino e Shanghai, a Bordeaux e in altri centri. Cinese fino in fondo, Li si è formata culturalmente alla Sorbona parigina, al Saint Martin College di Londra, in scuole d’arte a Firenze e Venezia imparando l’italiano. «Mi sento profondamente contemporanea - afferma - ma rifiuto i precetti del nihilismo estetico. Nessuna emozione può scaturire dal confronto con un’opera d’arte se non attraverso un’emozione estetica». Un commento che sembra riguardare direttamente la sezione della mostra composta dai violini, presentata con il titolo «Polifonia». Si tratta di una metafora che sottolinea la necessità dell’interazione di più voci musicali, artistiche, culturali: l’unica via possibile per predisporre un futuro della società mondiale su cui sta sorgendo il sole nero di Trump. È forse un messaggio troppo grande per il piccolo e desolato museo che non riesce a farci dimenticare il mattatoio di una volta.
E tuttavia ecco che dal Macro, ogni tanto, vengono lanciati messaggi di sopravvivenza con installazioni e mostre in grado di accendere l’attenzione di chi ama l’arte contemporanea. Come quella che da oggi, fino a fine marzo, ha per protagonista Li Chevalier, cantante dell’Opera cinese trasferitasi in Francia e divenuta scultrice e pittrice. In tre sale dell’innominabile Pelanda Li, 55 anni portati con leggerezza, espone un’installazione di violini pervasi di una musicalità altamente suggestiva a fianco di una trentina di dipinti a inchiostro montati su cavalletti. Il progetto artistico, («Trajectory of Desire»), ha debuttato allo spazio Open della scorsa Biennale di Venezia passando ora nella Capitale. Si tratta di una sorta di «trasloco d’arte» dal capoluogo lagunare alla nostra disastrata città. Un tempo cantante all’Opera di Pechino e poi soprano nel coro dell’Orchestra di Parigi, Li Chevalier ha portato sempre con sé la propria indole musicale nella sua trasformazione in artista contemporanea. Il suo lavoro è stato mostrato alla Summer Edition della Royal Academy of Art di Londra, nei musei nazionali di Pechino e Shanghai, a Bordeaux e in altri centri. Cinese fino in fondo, Li si è formata culturalmente alla Sorbona parigina, al Saint Martin College di Londra, in scuole d’arte a Firenze e Venezia imparando l’italiano. «Mi sento profondamente contemporanea - afferma - ma rifiuto i precetti del nihilismo estetico. Nessuna emozione può scaturire dal confronto con un’opera d’arte se non attraverso un’emozione estetica». Un commento che sembra riguardare direttamente la sezione della mostra composta dai violini, presentata con il titolo «Polifonia». Si tratta di una metafora che sottolinea la necessità dell’interazione di più voci musicali, artistiche, culturali: l’unica via possibile per predisporre un futuro della società mondiale su cui sta sorgendo il sole nero di Trump. È forse un messaggio troppo grande per il piccolo e desolato museo che non riesce a farci dimenticare il mattatoio di una volta.
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